venerdì 23 aprile 2010
L’invasione delle biomasse
L’invasione delle biomasse
Ok i carburanti vegetali ma le centrali sono troppe: allarme Pm10
A Livorno una superconcentrazione che fa discutere
CARLO BARTOLI
Da 75,6 a 175,6 megawatt in un anno. Sta in queste due cifre il boom dell’energia a biomasse in Toscana, ma la realizzazione delle nuove centrali alimentate con carburanti vegetali non trattati chimicamente fa discutere e non poco. L’ultimo caso riguarda Livorno, in particolare la realizzazione di due impianti che secondo l’Arpat immetteranno nell’aria il 50% in più di polveri sottili.
E questo senza contare il forte aumento di ossidi di azoto che sono dei precursori delle Pm10.
Un problema che mette in allarme non solo Livorno, dove peraltro il presidente della sesta commissione consiliare Andrea Romano ha definito «terrificanti» i dati diffusi dall’Arpat.
Tra impianti attivi e nuove centrali a cui le Province toscane stanno per dare il via libera, la potenza complessiva generata da biomasse aumenterà del 132% diventando così la seconda fonte di energia rinnovabile, superata solo dall’idroelettrica, inchiodata da tempo a poco più di 320 megawatt.
In pratica, in un paio di anni verrebbe raggiunto e superato l’obiettivo che per le biomasse il piano energetico regionale aveva preventivato di raggiungere nel 2020.
A provocare questa corsa a rotta di collo è il ghiotto sistema di incentivi (vedi scheda a parte) e il fatto che il governo ha in programma di ridimensionare scatenando così una corsa contro il tempo.
Ovunque spuntano progetti di nuove centrali, spesso di piccole dimensioni e a filiera corta (ossia alimentate da materia prima reperita nel raggio di poche decine di chilometri), ma nella sola provincia di Livorno sorgeranno tre grandi impianti, due nel porto di Livorno, e uno a Piombino. In quest’area si realizzerà una concentrazione che ha pochi uguali in Italia, dato che le due centrali ad olio combustibile già esistenti verranno affiancate dai tre nuovi impianti a biomasse. Le centrali alimentate con materia prima di origine vegetale hanno certamente un impatto ambientale minore di quelle a carburanti fossili, ma comunque scaricano nell’aria grandi quantità di sostanze che si trasformano in polveri sottili.
Per scongiurare una forte concentrazione di fonti inquinanti, Mario Lupi, consigliere regionale di Sinistra, ecologia e libertà, aveva presentato un’interrogazione per chiedere che l’applicazione della moratoria approvata dal consiglio regionale.
Una moratoria chiesta per fermare «l’avvio delle autorizzazioni o dei lavori per la costruzione di impianti energetici ad oli vegetali da filiera lunga nel territorio toscano», per sollecitare «la riforma delle incentivazioni all’energia prodotta dalle biomasse» e per favorire «le filiere corte e l’applicazione della Via agli impianti alimentati da biomasse non a filiera corta».
Accanto alla preoccupazione per la concentrazione di fonti di inquinamento, si sottolinea il fatto che l’olio vegetale proviene da grandi distanze e necessita «di enormi estensioni territoriali necessarie a produrre quantità rilevanti di materia prima» provocando così la spoliazione di enormi aree nelle grandi foreste pluviali.
In Toscana, in questi mesi sono spuntati molti progetti per la realizzazione di centrali a biomasse. Un impianto funziona a Scarlino, un altro, da 50 Mw, marcia a pieno ritmo a Piombino, un altro, di piccole dimensioni, è attivo a San Romano, dove produce 0,9 Mw bruciando il cippato ottenuto riciclando gli scarti dei boschi della zona. A Pisa un impianto a biomasse legnose presentato dalla Teseco sta per essere approvato, mentre il locale consorzio di bonifica ne vorrebbe realizzare uno a Larciano per bruciare 26mila tonnellate l’anno di erba di sfalcio raccolta con la manutenzione dei canali del Padule di Fucecchio; Monterotondo vorrebbe usare come combustibile 30mila tonnellate di fanghi di depurazione essiccati, mentre Rosignano alternerebbe fanghi e materiale legnoso.
A cippato si prevede che funzionino gli impianti di Maresca, Forno, Abetone, Cutigliano, Villa Basilica e quattro piccole centrali della Valbisenzio.
A Pescia, sempre con il cippato, vorrebbero produrre 1,2 Mw di energia e riscaldare il polo scolastico, mentre sull’Amiata hanno intenzione di bruciare 12mila tonnellate l’anno di scarti del legno.
C’è però anche qualche Comune che ha detto no, dopo aver preso atto del parere negativo degli abitanti: si tratta di Montieri e di Cascine di Buti.
LA SCHEDA Fanno gola gli incentivi
Biomassa. Una centrale a biomasse produce energia e/o calore utilizzando come carburante del vegetale solido (legno in varie forme), o liquido (biodiesel prodotto da semi di colza o di soia, oppure biogas ottenuto dalla lavorazione degli scarti zootecnici).
Incentivi. La produzione di calore da biomasse ha un ottimo rendimento, ma non è sostenuta da alcun incentivo, a differenza di quanto accade per la produzione di energia elettrica.
Gli impianti con potenza inferiore a un megawatt ricevono ventotto centesimi per ogni kwh di energia elettrica prodotto, anche se utilizzato dallo stesso produttore, realizzando così un doppio guadagno.
Gli impianti con potenza superiore a 1 mw vengono remunerati con 1,8 «certificati verdi» (del valore di 100 euro, Iva esclusa) per ogni mwh immesso in rete. Gli impianti non a filiera corta ne ricevono 1,3. Gli incentivi valgono per quindici anni.
Filiera corta e filiera lunga. Gli impianti sono a filiera corta se utilizzano una biomassa reperita sul territorio, in un’area non superiore ai settanta chilometri. Sono a filiera lunga se usano materia prima vegetale prodotta a una distanza superiore (ad esempio, l’olio di palma) o rifiuti biodegradabili.
Il professor Frey: l’impatto zero non esiste Non si può sempre dire no
«E’ PREFERIBILE avere tanti piccoli impianti a biomasse e a filiera corta che poche centrali alimentate ad olio di palma. Detto questo, penso che non si possa sempre dire di no, perché occorre creare rapidamente delle alternative alla produzione di energia da fonti fossili».
Per Marco Frey, docente di economia e gestione delle imprese, insomma, l’impatto zero non esiste, anche se occorre dotare le nuove centrali di impianti di filtraggio efficienti, in modo da ridurre l’impatto ambientale.
«Personalmente - spiega Frey - condivido l’impostazione del Piano energetico regionale che, per quanto riguarda gli impianti a biomasse, privilegia la filiera corta e la generazione distribuita. Avere una rete di piccoli impianti con materia prima disponibile nella zona e quindi fortemente connessi con il territorio è sicuramente positivo. Queste soluzioni sono senz’altro preferibili anche se, a proposito delle energie rinnovabili, occorre tenere presente anche la necessità di uno sviluppo accelerato del settore rispetto alle fonti fossili».
In generale, secondo Frey, la filiera corta è sempre auspicabile, anche perché può fornire un contributo importante all’agricoltura, con l’introduzione di colture con un buon valore energetico ed economico. «Certo - aggiunge - si può obiettare che comunque si tratterebbe di colture alternative a quelle di tipo alimentare, ma anche in questo ambito occorre fare una valutazione comparata».
Per quanto riguarda le preoccupazioni per l’effetto sulla qualità dell’aria che possono avere questi impianti, «sono disponibili sistemi di abbattimento delle emissioni altamente affidabili. Progetti che non tenessero conto di questa opportunità, certamente dovrebbero incontrare ulteriori difficoltà ad ottenere l’autorizzazione». (C.B.)
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